Panorama.it – Start up, 5 like e 5 don’t like sul decreto sviluppo

Panorama.it – 16 ottobre 2012

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Start up, 5 like e 5 don’t like sul decreto sviluppo
Cosa ci piace e cosa no delle nuove norme per il lancio di nuove imprese

di Giovanni Iozzia

Il decreto Sviluppo Bis non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, dieci giorni dopo il passaggio in Consiglio dei ministri. Si dice che la nomenclatura dei ministeri stia cercando di far quadrare i conti: la copertura finanziaria dei provvedimenti inseriti resta un problema. L’entusiasmo sulla svolta digitale si smorza. E i timori, che sin dal primo momento erano stati manifestati sulla fattibilità dei buoni propositi del ministro Corrado Passera aumentano.

Adesso l’augurio è che nei prossimi giorni il decreto possa cominciare il suo percorso parlamentare per verificare quanto, strada facendo, sarà modificato o stravolto. Perché, si sa, è nei particolari che il diavolo mette la coda e molto dipenderà da come i nuovi provvedimenti verranno attuati. Intanto l’Agenda Digitale resta ancora senza condottiero: la nomina del direttore generale dell’Agenzia, dopo la pubblicazione del bando, si è persa tra le nebbie ministeriali. Qualcuno dice per eccesso di candidature, qualcun altro per i timori dei ricorsi che certamente arriveranno dopo un paio di vizi formali nell’espletamento della pratica.

Un capitolo importante del Decreto è dedicato al sostegno delle imprese innovative. Ed è proprio quello che viene considerato il segnale più importante dell’impegno del governo in un settore tradizionalmente trascurato. “Mi piace tutto ma non mi accontento”, è la sintesi che fa Max Ciociola, fondatore di MusiXmatch di un sentimento diffuso nell’ecosistema. “Evitiamo la sindrome dell’asino di Buridano”, è l’invito di Salvo Mizzi, responsabile di Working Capital Telecom. “L’importante è che siamo partiti e che la palla non è finita in tribuna”.

Ma quali sono le cose che piacciono e quelle che piacciono meno nel provvedimento in attesa di pubblicazione?

Like

1.  Il sostegno all’ecosistema: ci sono provvedimenti che favoriscono la costruzione di un ambiente favorevole alle start up, dagli incubatori ai venture capital, osserva Enrico Gasperini di DigitalMagics.

2.  L’attenzione a tutto il ciclo di vita della start up: dalla nascita alla morte senza infamia, con le nuove norme su liquidazione e fallimento.

3.  Il crowfunding: finalmente entra nella legislazione italiana uno strumento con grandi potenzialità, dice Dario Giudici del portale SiamoSoci.it che fa incontrare start up e potenziali investitori.

4.  Lavoro flessibile: le deroghe ai contratti che permettono una gestione meno rigida degli impieghi. “D’altro canto”, osserva ironicamente Marco Ottolini, ceo di Styloola, “in una startup assumere a tempo indeterminato non è un problema: se la società non funziona, si chiude”. Il problema è il costo del contratto.

5.  Le stock-option: la possibilità di prevedere una parte della remunerazione con quote di partecipazione alla società e con un trattamento fiscale agevolato, apre nuove possibilità di ingaggio dei talenti e di sviluppo.

Dont’like

1.  La definizione di StartUp: troppo accademica e vincolante. “Ci sono dettagli che non sembrano avere senso, come i dottorandi obbligatori in società“, osserva Luigi Capello di Enlabs.

2.  La bassa detraibilità dell’investimento: solo il 19% di detrazione per chi investe in start up contro contro il 75% della Gran Bretagna, ricorda Mario Bucolo, ceo di PhotoSpotLand.

3.  Il budget risicato: accantonato per il momento il Fondo dei fondi, le risorse sono poche. E, come dice, Gianluca Dettori di DPixel, “è difficile fare il venture capital senza capital”.

4.  Il blocco per gli angeli: sempre Bucolo fa notare che i Business Angel non potranno disinvestire prima dei due anni perché la startup abbia il trattamento agevolato.

5.  L’approccio provinciale: l’orizzonte delle start up è sempre di più globale. Ma c’è poco o nulla per favorirne lo sviluppo internazionale. E non è neanche previsto l’uso dell’inglese, sottolineano gli osservatori più esigenti. Forse perché siamo ancora in Italia

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