Nòva24 de Il Sole 24 Ore – 15 marzo 2015  In allegato il PDF
Ilsole24ore.com – 16 marzo 2015  http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2015-03-16/come-cambiano-professionisti-startup–162322.shtml?uuid=ABxarn6C
Come cambiano i professionisti delle startup?
A due anni e mezzo dal decreto legge Crescita 2.0 il mondo degli incubatori, e di riflesso quello delle startup, ha subito diverse metamorfosi. Il Ministero per lo Sviluppo Economico ha rilasciato, il 10 marzo 2015, il Piano di incentivazione in equity per la startup innovativa e l’incubatore certificato che tratta le modalità con cui le aziende possono introdurre strumenti partecipativi appannaggio dei dipendenti come, ad esempio, azioni o quote societarie. Mentre il legislatore si attiva su un fronte, gli incubatori adottano nuove strategie. Una di queste è testimoniata dall’accordo tra H-Farm e Technogym, che offre l’occasione di fotografare la situazione degli incubatori attivi in Italia. Da una parte un Venture Incubator italiano con ramificazioni in tutto il mondo e dall’altra un leader nei comparti fitness e wellness i quali, insieme, aprono le porte a cinque startup da posizionare all’interno del “Wellness Accelerator Programâ€, un percorso di sviluppo dotato di un finanziamento di 80mila euro in parte cash e in parte in servizi tra i quali mentoring e networking. Le startup selezionate verranno seguite da persone con skill nel settore, creando così un’accelerazione specifica e aderente al comparto in cui operano le neo-imprese come dice il co-fondatore e CEO di H-Farm, Riccardo Donadon: «è la corretta evoluzione del nostro modello. Siamo partiti 10 anni fa’ con un attività che era di frontiera e che ora è diventata comune. Siamo sempre stati orientati verso le imprese, il nostro capitale azionario è ricco di imprenditori e quello con Technogym è il primo di altri progetti simili che lanceremo in collaborazione con altre aziende affermate, programmi sui quali ancora non posso pronunciarmi». Un’evoluzione iniziata a metà del decennio scorso ma che si manifesta oggi e ha, tra i diversi pregi, quello di diminuire il rischio di selezionare startup non vincenti: «in questi casi – continua Donadon – siamo molto più mirati, andando a cercare innovazione che ha già un potenziale utilizzatore, ovvero l’azienda che ci commissiona il programma». Creare innesti tra brand costituisce già un effetto sinergico positivo con un impatto sensibile sia sui costi di ricerca sia su quelli di acquisizione dei clienti. Il tema dell’abbattimento dei costi è caro anche al professor Cantamessa, Presidente e AD di I3P, Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico di Torino: «ne guadagnano i processi interni e la crescita della startup che non deve svilupparsi nell’incertezza, ne guadagnano anche gli incubatori; quelli più piccoli possono focalizzarsi su settori di incubazione specifici, quelli più grandi possono affacciarsi a settori diversi creando sinergie a vantaggio di tutti. Anche noi stiamo studiando partnership con player industriali al cui proposito, ancora, non posso dire molto». Tra gli impatti positivi di questa strategia c’è anche la capacità di attrarre startup straniere, trend confermato da Marco Cantamessa, secondo il quale la professionalità italiana sta iniziando a demolire i pregiudizi che riguardano il nostro Paese. L’accoro tra H-Farm e Technogym segue una strada già tracciata anche da Digital Magics. Un modello la cui bontà è riconosciuta da Enrico Gasperini che ne è fondatore, Presidente e CEO: «anche noi abbiamo realizzato programmi di open innovation con una ventina di grandi aziende e lo abbiamo comunicato ufficialmente come nel caso di Intesa, Unicredit, Gruppo Sella, Gruppo Creval e poi ancora RCS. Accordi in cui l’azienda affianca l’incubatore, dando un supporto finanziario e di accelerazione, mettendo a disposizione il proprio know-how e i propri canali di vendita. In cambio le aziende ricevono una spinta dal punto di vista dello sviluppo e dell’innovazione». Un simile cambiamento di filosofia, incentrato sulla collaborazione, troverà però la sua massima manifestazione nel momento in cui aumenterà la massa di investimenti fatti, in Italia ancora al di sotto della media europea. Il fatto che manchi una struttura altamente professionale nel comparto del crowdfunding in tutte le sue declinazioni contribuisce a fare il resto. La specializzazione degli incubatori aiuta il sistema delle startup e quello degli attori dell’industria, soprattutto in Italia dove il manifatturiero è sinonimo di qualità , su questo aspetto si è espresso Federico Barilli, Segretario generale di Italia Startup: «siamo convinti che questo modello consenta una crescita delle startup di valore, fare matching con l’industria agevola anche chi ha precedentemente investito nelle startup incubate». Riguardo a nuove forme di exit strategy eventualmente fornite da questa evoluzione Barilli offre uno spunto interessante: «la parola exit in sé è spesso fuorviante, fa parte di una logica anglosassone e americana, noi dovremmo parlare di “growth strategy†una strategia di crescita che permetta ai fondatori di maturare la propria esperienza e di decidere in futuro se cedere la startup o continuare il proprio business guardando anche ad altri clienti». Riguardo all’ecosistema italiano per Paolo Barberis, co-fondatore di Nana Bianca: «in questo momento ci deve essere proporzionalità tra le startup che vengono affiancate e il sistema che deve riceverle sul mercato. Per un incubatore è importante cercare di dimensionarsi su una quantità di startup che ha la possibilità di seguire e che il sistema di finanziamenti possa ricevere. La verticalizzazione è una strada da percorrere». L’open innovation ha anche degli svantaggi, che vengono però leniti dalla sua vasta diffusione. L’azienda che accoglie al suo interno la startup può effettivamente decidere di rilevarla tenendo per sé il prodotto innovativo ma non il team che lo ha studiato e sviluppato. Una exit strategy che però non lascia nessuno con i piedi al freddo e che, considerando l’acquisizione come parametro di successo per una startup, può addirittura essere una medaglia da apporre al petto dei fondatori. La necessità di ridurre il rischio di impresa, sempre più avvertita dagli incubatori, rischia di favorire quei progetti imprenditoriali che possono da subito servire ad aziende esistenti, distogliendo lo sguardo da altri neo-prodotti e neo-servizi atti a sanare bisogni con un mercato non ancora ben definito ma con ottime chance di crescita e sviluppo. Si potrebbe registrare, in futuro, un disinteresse per le incubazioni e i percorsi di finanziamento “classiciâ€, privilegiando invece le partnership tra startup e imprese già consolidate. A non goderne di certo sono le nuove modalità di vendita perché le startup, secondo questa nova corrente degli incubatori, si avvalgono di una rete commerciale già esistente e rodata, poco incline a cambiare l’approccio con i propri clienti. Ciò nonostante la collaborazione tra incubatori e imprese già affermate sarà un modello che terrà banco per i prossimi anni e potrà aiutare i fondatori a portare nelle cifre nere le proprie startup in tempi più brevi di quelli attuali, dando una reale scossa all’impiego.