Gioia – Sharing economy – piccole utopie crescono

Gioia – 25 aprile 2015

Sharing economy – piccole utopie crescono

Condividere gli spazi, il cibo, le idee. Addirittura il posto di lavoro. Per usare senza possedere. E risparmiare, certo, ma anche sentirsi parte di una comunità che può raggiungere obiettivi impensabili per una persona sola. Una tendenza che cambierà il mondo? Sì, basta crederci

Arcangela ha 30 anni e vive ad Agrigento, sua cugina si sposa a Milano in aprile, sarebbe bello restare lì quattro settimane e fare un corso di community manager, il budget di 2.000 euro può coprirlo, però i pagamenti arriveranno a maggio: soluzione? Tuffarsi nella sharing economy, l’economia della condivisione. La nostra amica chiede un social lending , prestito tra privati, metodo approvato dalla Banca d’Italia: «Veloce, trasparente, con un tasso fino al 50 per cento in meno di quello medio bancario, se la tua storia di debitore è virtuosa», assicura Michele Novelli, ceo di prestiamoci.it , tra le piattaforme più usate. Arcangela organizza viaggio e soggiorno. Trova un passaggio in macchina su blablacar.it per Catania (10 euro, 160 km, in taxi sono 170 euro), vola low cost, abita in una stanza affittata su Airbnb (un milione e mezzo di utenti nel 2012, quattro milioni oggi), per la festa indossa un completo griffato preso su My secret dressing room ( mysdroom.com ), piattaforma di affitto tra utenti di abiti e accessori, fa amicizia nelle cene social ( gnammo.it), a casa di sconosciuti, usa le bici del Comune per spostarsi ( bikemi.com ). E per regalo di nozze? Un’idea verde! L’adozione di un arancio in Sicilia, 80 euro per 50 kg di frutto recapitato a domicilio (s anarancia.it ). Per arrivare fin qui Arcangela attiverà app sullo smartphone e invierà feedback per costruire la reputazione di chi offre, compra e scambia servizi. Questo stile di vita di usare e non possedere, risparmiare e creare community è una moda o una svolta? L’economista Luigino Bruni, ultimo libro Fidarsi di uno sconosciuto. Economia e virtù nel tempo della crisi (Edb), dice: «Sono abbastanza convinto che la sharing economy sia una faccenda seria destinata a crescere». La novità più rilevante, secondo Bruni, è questa: «Per la prima volta il desiderio di un’economia solidale s’intreccia con la creatività delle giovani generazioni e la tecnologia. Il successo in futuro dipenderà dallo sviluppo di una cultura politica sensibile e dalla formazione dei ragazzi nelle scuole. Di sicuro vivremmo tutti meglio facendo dei beni di consumo occasioni di incontro con gli altri». Ivana Pais, sociologa all’Università Cattolica di Milano, tra le studiose più attive del fenomeno, osserva: «Lo scambio tra sconosciuti costruisce relazioni leggere e uide, improntate alla socievolezza; occasionali sì, ma così diffuse da ricreare un tessuto sociale, superare la barriera della diffidenza, disseminare fiducia». Chi non usa la tecnologia è tagliato fuori dalla sharing economy? Ancora Pais: «Il legame è imprescindibile, ma non vincolante e lo dimostra l’Italia dove l’economia condivisa è legata al territorio». L’esempio sono le social streets (372 in tutta la penisola, socialstreet.it ), dove si (ri)costruisce la comunità del vicinato con la condivisione delle baby sitter nello stesso condominio, gli orti sociali intergenerazionali (gli anziani insegnano ai ragazzi), gruppi di acquisto a km zero (i Gruppi di acquisto solidali, Gas, oggi sono più di 2.000 e coinvolgono quasi tre milioni di italiani, secondo Coldiretti), merende, aperitivi e cene sociali che ridanno vita alle comunità e all’economia di quartiere. In vista dell’Expo, l’obiettivo è rendere le attività di condivisione - cibo, casa, auto – legali, praticabili da chiunque, dunque fonte di reddito, grazie a un’iniziativa promossa da Fondazione Enrico Mattei, Sharitaly e Comune di Milano. La rivoluzione investe anche il modo di lavorare. In Trentino AltoAdige è stato attivato il Registro delle comanager, ovvero una lista di imprenditrici e artigiane che possono sostituire le loro colleghe assenti per maternità o altre esigenze familiari. Tra le partita Iva e i precari a progetto, l’isola di approdo e ripartenza sono gli spazi coworking, dove si condivide l’ambiente di lavoro: uffici, scrivanie e le spese per le utenze. Ce ne sono centinaia, in città e paesi, privati o supportati dagli enti locali (tra i primi la Regione Toscana), luoghi di aggregazione da cui nascono progetti tra persone con competenze complementari. Da Piano C, a Milano, ha sede la start up Fili matti di Martina e Veronica, vicine di casa: si sono conosciute «tramite il pancione»; costrette a lasciare il lavoro dopo la maternità, hanno inventato piccolesorprese. com , sulla scia delle smart box . In questo caso sono cofanetti regalo di attivitàcreative da zero a dieci anni: «Ce ne occupiamo da casa o al coworking, portando i bambini nello spazio cobaby. Non avevamo un lavoro, adesso ne abbiamo uno tagliato su di noi». La sharing economy non si ferma ai privati e investe le istituzioni. Si chiama civic crowdfunding ed è la raccolta online di denaro, pubblico e privato, da destinare a un bene pubblico. A Bologna ne è stata appena chiusa una di 365.000 euro per la ristrutturazione del portico di San Luca (dove c’è anche una attivissima social street ). Il Comune ha messo 100.000 euro e 7.000 cittadini – tra di loro Gianni Morandi – ne hanno versati 265.000: sono appalti, cantieri, lavori che creano ricchezza per tutta la città. La campagna di raccolta è stata gestita dalla piattaforma Ginger (ideaginger.it, cinque giovani e battagliere ragazze che vivono in Emilia-Romagna). Il successo si fonda (anche) sulla brillante comunicazione che ha puntato sulla storia del portico: il più lungo del mondo, costruito a fine Seicento in 50 anni, con il contributo anche fisico di tutti i cittadini che si passavano i mattoni. Oggi la storia di costruzione comunitaria si ripete. Angelo Rindone, fondatore di Produzioni dal basso ( produzionidalbasso.com ), piattaforma di crowdfunding, racconta: «Sul sito ci sono progetti per aprire librerie o realizzare documentari – uno dei più fortunati, Lei disse di sì , storia del viaggio d’amore di due ragazze da Firenze in Svezia per sposarsi, andrà ai David di Donatello – che hanno successo non per la ricompensa offerta a chi investe, tipo una targa o un dvd dell’opera, ma per la loro capacità di farti sentire parte di una comunità, online e ofine». Attivarsi, uscire dal torpore, essere parte di un tutto: piccole utopie crescono, qui e ora.

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