Linkiesta.it – 17 maggio 2015
L’algoritmo che cambierà per sempre le banche
Il “social lending†da fenomeno di nicchia farà girare 150 miliardi di dollari entro dieci anni. E gli istituti di credito provano a scendere a patti
di Fabrizio Patti
La forza dell’algoritmo sta nella successione di numeri: 1,5 miliardi di dollari nel 2011, 2,7 nel 2012, 6,1 nel 2013, 16,2 nel 2014, 34 attesi nel 2015. Sono i soldi prestati con le iniziative di crowdfunding a livello mondiale. Se avete in mente finanziamenti di dischi o attività benefiche, toglieteveli dalla mente. Un buon sessanta per cento di questi soldi (11 miliardi nel 2014) sono prestiti, chiamati social lending. Anche in questo caso, il termine social è fuorviante. Meglio chiamarli nuovi prestiti, erogati da piattaforme che non c’entrano nulla con le banche, che hanno costi di personale estremamente bassi, che raccolgono capitale da privati direttamente sui loro siti e valutano la gran parte delle richieste tramite un algoritmo.
Secondo Pwc il valore dei prestiti attraverso queste piattaforme raggiungerà i 150 miliardi di dollari nel 2025
Il fratello maggiore della famiglia dei nuovi operatori si chiama Lending Club, lo scorso dicembre si è quotato alla Borsa di New York ed è stato valutato 8 miliardi di dollari (da allora c’è stata una discesa di circa 1 miliardo). È stato seguito a ruota da OnDeck, mentre altri operatori come Prosper o Funding Circle stanno provando a fare altrettanto. Secondo Pwc, che stima in 5,5 miliardi di dollari l’erogato del social lending nel 2014 nei soli Stati Uniti, il valore dei prestiti attraverso queste piattaforme raggiungerà i 150 miliardi di dollari nel 2025. La International Organization of Securities Commissions pone come traguardo intermedio quota 70 miliardi tra cinque anni a livello globale.
Di fronte a questa ascesa dirompente (o, come dice Pwc, disruptive, l’aggettivo dell’anno), alcune banche, come Santander e Royal Bank of Scotland stanno cominciando a mettere in atto delle collaborazioni per non esserne travolte. Anche i fondi di investimento sono entrati in questi soggetti e, paradossalmente, sono oggi una zavorra per queste piattaforme. Perché se è vero che i costi operativi sono bassissimi (Lending Club dichiara che sono circa il 2% dell’erogato, contro l’8% delle istituzioni legate alle carte di credito), è anche vero che avere come finanziatore un fondo significa ridare i prestiti a un tasso di oltre il 10 per cento. Le banche, pur gravate di costi ben maggiori, hanno l’enorme vantaggio di avere depositi di milioni di correntisti a cui danno un rendimento di meno dell’1 per cento. La soluzione, dicono gli stessi gestori delle piattaforme, è minimizzare il rischio di insolvenza. Guarda caso questo avverrà grazie a un nuovo algoritmo: sarà il sacro graal del social lending, ma porrà dei problemi notevolissimi di privacy, perché scandaglierà tutte le tracce che chi chiede un prestito ha lasciato nel grande mare dei big data.
L’era della reintermediazione
«Il modello di business P2P è completamente diverso da quello delle banche tradizionali», dice uno studio Pwc dello scorso marzo. «Gli operatori non prestano il loro denaro, ma agiscono come una piattaforma che fa incontrare chi cerca un prestito e “investitoriâ€Â». I loro ricavi vengono dalle commissioni a carico di chi prende il prestito e da una parte dell’interesse fatto pagare agli investitori. Le commissioni sono tra lo 0,50% e il 5% della somma prestata.
Per avere prima una risposta bastano meno di 10 minuti, poi l’approvazione definitiva arriva in 4-5 giorni
Per chi cerca i prestiti il vantaggio è in primo luogo il tempo: per fare una domanda, raccontano le esperienze di utilizzatori di Lending Club raccolte in un articolo di Inc, ci vogliono 10 minuti, contro varie ore necessarie in una procedura classica. Per avere prima una risposta bastano meno di 10 minuti, poi l’approvazione definitiva arriva in 4-5 giorni. In mezzo Lending Club fa una doppia verifica: sulla posizione finanziaria di chi chiede i prestiti (attraverso i credit bureau) e, se si tratta di una piccola impresa o di un esercizio commerciale, sulle potenzialità di crescita in base a settore, contesto competitivo e localizzazione. Ovviamente tramite un algoritmo. Un terzo delle domande non viene neanche mai guardata da un occhio umano, spiega ancora Inc, tranne che per verificare che non ci sia una truffa.
Un terzo delle domande su Lending Club non viene neanche mai guardata da un occhio umano
«È certamente in atto una rivoluzione, o forse sarebbe meglio dire un’evoluzione del settore vista la crescita esponenziale del social lending, ascrivibile dentro la macro-famiglia del crowdfunding». A parlare è Angelo Rindone, uno dei pionieri del crowdfunding italiano, attivo su questo fronte dal 2005, e oggi amministratore delegato di FolkFunding, una start-up italiana che si occupa di crowd-economy. «Per un certo periodo – spiega – Internet ha disintermediato, cambiando paradigmi, oggi è più corretto parlare di re-intermediazione: le piattaforme abilitanti sono i nuovi mediatori. In molti casi assistiamo a processi di democratizzazione e di abbattimento delle barriere di ingresso: nelle mani delle persone arrivano strumenti che prima erano solo per professionisti».
 «Secondo un report della Federal Reserve Bank di Cleveland – continua lo studio Pwc – i tassi di interesse P2P sono tipicamente più bassi che quelli della maggior parte di chi presta soldi attraverso le carte di credito. Questo, unito a un’offerta considerata più “user-friendly†e a un’esperienza più efficiente per chi ottiene i prestiti e chi investe, potrebbe far spostare il piatto della bilancia a favore di queste piattaforme».
Gli interessi delle società di social lending non sono però troppo bassi. Anzi, possono arrivare e superare il 30%
A differenza di quanto avviene con piattaforme come Uber, che nella versione Pop (o X nel Regno Unito) hanno un costo per i consumatori decisamente inferiore a quello dei taxi, gli interessi delle società di social lending non sono però troppo bassi. Anzi, possono arrivare e superare il 30%, un tasso che in Italia sarebbe considerato da usura e quindi vietato.
Tra i motivi c’è anche il fatto che tra gli investitori di queste piattaforme non ci sono più solo privati. La forma base di P2P (da privato a privato, la forma originaria di Prosper e Lending Club), si è andata evolvendo, sia verso forme P2B (da privati a imprese, soprattutto piccole, come fa Funding Circle), sia verso forme in cui a investire sono fondi. Così è stato per Lending Club: banche, hedge-fund e società di private banking contano per due terzi dei finanziatori della piattaforma e richiedono tassi di rendimento elevati. L’amministratore delegato di OnDeck rivelò che nessun fondo offrì tassi inferiori al 18 per cento. Questa struttura si ripercuote sugli interessi chiesti alle persone a chi vengono prestati i soldi.
Per abbassare il rischio di default dei debitori in modo da diventare interlocutori affidabili ci si affiderà a un algoritmo che scandaglierà i nostri dati
La soluzione per liberarsi dai fondi di investimento sembra essere semplice: abbassare il rischio di default dei debitori in modo da diventare interlocutori affidabili per un mercato di investitori vastissimo. Oggi il tasso di fallimento di soggetti come Lending Club è di circa il 3-4%, poco sopra la media del settore delle carte di credito. Ma per un soggetto come OnDeck arriva all’11 per cento. Per abbassare il rischio sarà necessario ricorrere ancora una volta a un algoritmo. «Il problema di queste piattaforme è gestire gli insoluti: nell’epoca dei social network piccoli casi possono diventare un problema per la reputazione delle piattaforme», spiega Rindone. «Le piattaforme italiane usano gli strumenti classici del credit bureau per valutare chi richiede un prestito: da questo punto di vista non c’è stata una grande evoluzione rispetto al passato».
Tuttavia, aggiunge, diverse start-up, soprattutto nel Nord Europa, stanno cercando il sacro graal dei prestiti e della finanzia online: una valutazione sull’affidabilità finanziaria di una persona a partire dall’analisi dei big data. «Stanno cercando di usare i dati sui comportamenti online degli utenti – continua Rindone – con l’idea di arrivare a definire il “profilo di rischio” di una persona in base ad alcuni comportamenti o azioni anche non direttamente di tipo finanziario. Questo crea naturalmente dei grossi problemi sulla privacy ma non solo». A che punto son queste ricerche? «Gli scenari ad oggi non sono del tutto chiari, qualcuno dice già di averlo, altri lo utilizzano in modo sperimentale e altri ancora dichiarano di lavorarci da tempo – risponde il ceo di Folkfunding – l’obiettivo dichiarato è di ridurre a (quasi) zero i prestiti in sofferenza e di rendere queste piattaforme sempre più affidabili».
Già oggi, aggiunge, «i soldi ritornano in modo migliore rispetto ad altre tipologie di credito, anche perché si tratta di piccoli prestiti. Per il risparmiatore il rischio è abbastanza controllato, perché i fondi sono “spacchettati”». Dopo che un piccolo investitore ha creato il suo profilo di investimento, il denaro viene diviso e messo sul mercato, ancora una volta tramite un algoritmo. «Se vogliamo usare un’immagine semplice – dice Rindone – il meccanismo mi ricorda il mondo del torrent, c’è un match tra domanda e offerta e i file sono letteralmente polverizzati e inviati contemporaneamente a tante persone diverse».
Rindone è al lavoro nella creazione di una piattaforma italiana di social lending. Si chiama Motusquo e sarà una piattaforma di P2P lending. «Sono convinto – commenta che servano più operatori per aumentare la concorrenza e soprattutto tanta comunicazione per smuovere il mercato. Si parla spesso di crowdfunding e quasi mai di social lending, eppure è il sistema che fa muovere più soldi».
Oggi il mercato italiano è piccolo: il volume dei prestiti non supera i 23 milioni di euro. Gli operatori sono principalmente due: Smartika e Prestiamoci
Prestiamoci, invece, che ha invece licenza di tipo bancario, è stata protagonista di un exit (acquisto di una start up cresciuta di dimensioni): è stata comprata per 5,3 milioni di euro dalla piattaforma di social lending norvegese TrustBuddy International AB.
Altre piattaforme sono nel frattempo nate in Italia, come Workinvoice, che di occupa di factoring, fondata da Fabio Bolognini, fondatore della società di consulenza finanziaria Linkerbiz e del blog Linkerblog (i cui articoli sono spesso ospitati da Linkiesta). Il sistema dà la possibilità alle imprese di cedere le proprie fatture a un prezzo competitivo, perché attraverso aste online degli investitori competono per aggiudicarsi le fatture migliori. «Lo scambio è solo di fatture. Noi come Workinvoice facilitiamo, grazie alla tecnologia, l’incontro tra le piccole imprese e gli investitori, non gestiamo o tocchiamo soldi e quindi non siamo soggetti a una regolamentazione finanziaria specifica – spiega Bolognini -. All’interno delle nuove piattaforme fa parte della categoria investor to business. Ce ne sono in tutta Europa, come Funding Circle nel Regno Unito, e negli Usa, come OnDeck».
Bolognini: «All’estero le regole si fanno quando il mercato è partito, da noi è il contrario»
La regolazione del settore è vista come una garanzia di sicurezza ma anche un peso. «All’estero le regole si fanno quando il mercato è partito, da noi è il contrario – commenta Fabio Bolognini -. Il crowdfunding equity è stato penalizzato dalla regolazione eccessiva, gli stessi minibond non stanno decollando. Noi ci aspettiamo che, vista la fioritura di piattaforme europee, possa intervenire l’Ue, creando una regolazione tollerante: è necessario da una parte evitare bolle speculative, dall’altra permettere che si crei un’alternativa alle banche». «Le banche – aggiunge - non possono pensare che gli altri operatori siano gravati dagli stessi costi loro, dopo tutti i danni che hanno fatto».
Per le banche è tempo di scegliere: competere o collaborare con queste piattaforme
«La comunità delle banche sta legittimamente facendo attenzione a questi nuovi concorrenti», scrive Pwc nel suo report già citato. «L’espansione del prestito P2P verso mutui e altre categorie del credito significa che il P2P non è più semplicemente un modo per ottenere prestiti personali da pochi dollari, che le banche possono non vedere come qualcosa di centrale nella loro offerta, ma è piuttosto una minaccia potenziale alla loro base di clienti». Questo perché la struttura low-cost associata alle pratiche di finanziamento online crea il potenziale a queste piattaforme per offrire prestiti a bassi interessi. Per questo per la società di consulenza e revisione, per le banche è tempo di scegliere: competere o collaborare con queste piattaforme.
Qualcuno ha già scelto la seconda strada. Nel Regno UnitoSantander e Royal Bank of Scotland, ha ricordato il Financial Times, hanno già siglato accordi con società P2P. Mentre Société Générale e Goldman Sachs sono tra le varie banche che avrebbero nel mirino Aztec Money, una piattaforma emergente che ha creato un marketplace per lo scambio di fatture.
Qualcosa di simile potrà avvenire anche in Italia. «Succederà anche qui, magari tra 4-5 anni – prevede Fabio Bolognini -. È inevitabile che ci siano accordi. L’evoluzione del sistema bancario sarà terribile e dovrà adeguarsi ai nuovi scenari. La banca può diventare aggregatore delle varie piattaforme».